Quale memoria storica?

Le iniziative di memoria storica permettono di ricostruire quel lungo filo rosso che collega, partendo da una storia collettiva e organizzata, le lotte di ieri a quelle di oggi. Per non dimenticare nessun* compagn*, per non dimenticare chi ha dato la vita per cambiare questo mondo, chi ci ha creduto davvero e che, per questo, ci ha permesso di continuare a farlo ancora oggi.
Quando diciamo “Francesco vive nelle lotte, Pedro è vivo e lotta insieme a noi”, non lo diciamo solamente a fini sloganistici. Lo gridiamo insieme, a voce alta, lo scriviamo sui muri o sui libri, lo urliamo al megafono, perché così è.
Pedro e Francesco hanno dato la loro vita per cambiare lo stato di cose passate, ed è giusto ricordarli; è giusto ricordarli, però, nell’unico modo secondo noi possibile: non con mere e tristi commemorazioni, ma rifacendoli vivere nelle lotte che portiamo avanti ogni giorno, che partono dai picchetti notturni ai cancelli della logistica, che passano per le occupazioni di case e per la riappropriazione di spazi e reddito, che arrivano alle scuole e alle facoltà occupate e ribelli.
Non vogliamo guardare al passato con nostalgia, non vogliamo porre paragoni tra il passato e il presente; questo non è possibile e sbaglieremmo se cadessimo in questa tentazione. Noi vogliamo volgere lo sguardo al futuro, ad un futuro che non è ancora stato scritto ma che abbiamo la possibilità di poter scrivere. Per farlo abbiamo certamente bisogno di ricostruire la nostra memoria collettiva, di parlarne, di dibatterne come abbiamo fatto durante questa tre giorni, ma come facciamo ogni qualvolta che esprimiamo sapere critico dal basso, per far vivere, con le nostre iniziative, chi non c’è più nel nostro presente, un presente fatto di lotte e conflitti sociali.
Lo facciamo tutti i giorni, in ogni territorio che attraversiamo della penisola, dalla Val di Susa che lotta contro il TAV, nei territori padovani dove da tempo il nascente movimento di lotta per la casa si riappropria di spazi lasciati al degrado e all’abbandono, anche negli stessi territori dove militava Pedro, fino ad arrivare a Palermo dove i compagni lottano ogni giorno contro le riforme di uno Stato che cerca di indebolire sempre di più la fascia povera della società.
Tanti forse non sapevano chi era Pedro o chi era Francesco; con le tante iniziative organizzate sia qui a Bologna, dal Collettivo Universitario Autonomo, che a Padova, dai compagni del collettivo Scatenati e Mensa Marzolo Occupata, siamo riusciti, seppur forse parzialmente, nell’intento di ridare voce a chi, per mano di uno stato omicida e assassino, oggi voce non ne ha più. Dire Pedro vive nelle lotte vuol dire anche questo; ridare voce alla sua storia, riappropriandoci della memoria storica di quegl’anni anche per togliere spazio a chi invece cerca, dall’alto, di riscrivere queste storie in maniera conciliante, relegando questi avvenimenti in un passato lontano cercando così di narrare un presente senza conflitti sociali.
E’ invece proprio l’attualità del conflitto sociale che ci fa rispedire al mittente i tentativi di costruire attorno a quegli anni una memoria condivisa e neutrale. La lettura di quegl’anni non può che essere una lettura di parte, e quella che noi qui portiamo è la lettura della nostra parte. La parte delle lotte per il riscatto sociale e per la dignità che ancora oggi si danno, e che in un filo rosso, fatto non di una continuità lineare, ma di rotture e balzi in avanti, ancora ci lega a quegl’anni.
Ora ci spostiamo al 9 marzo del 1985, a Trieste, in via Giulia 39, verso le 11 del mattino. Qui Pedro venne ferito a morte dai colpi di pistola di Digos e Sisde che avevano l’ordine di ammazzarlo. Pedro cerca di scappare, disarmato (nonostante le indagini a seguito cercarono di dimostrare il contrario) ma non vi riesce, viene raggiunto dai proiettili. Nei giorni dopo la rabbia dei compagni si fa sentire, in migliaia scendono in piazza per vendicare l’assassinio di Pedro, contro le dichiarazione del pm di allora Pietro Calogero e del suo fasullo teorema che cercava di dimostrare come l’Autonomia fosse il bacino di reclutamento militanti delle Brigate Rosse, e come i teorici dell’Autonomia e di Potere Operaio del nord-est fossero quadri del partito armato, il tutto contornato in un contesto di allarme terrorismo. E ancora, le assemblee riempite da centinaia di persone, i cortei spontanei, fino ad arrivare alla controinchiesta condotta dai compagni, muri e strade vivono e parlano di rabbia, riempiti di manifesti e volantini, le radio libere trasmettono ogni ora del giorno per rendere difficile il lavoro della magistratura e condurre contro informazione costante.
Sull’assassinio di Pedro ancora tanti dubbi, tanti nodi non risolti, accolti dai compagni, ancora oggi, come motivo in più per non lasciar spegnere la rabbia che ci univa a Pedro, da sempre attivo nelle lotte sociali, al fianco dei più deboli. Tantissime le iniziative che a Padova, ma non solo, in tutta la penisola, per tutto il trentesimo anno dalla morte del compagno saranno portate avanti per ricordarlo.
Per non far spegnere la nostra memoria, per non lasciarla in mano a chi vorrebbe occultarla o farla propria, per continuare a tessere quel lungo filo rosso di cui abbiamo a lungo parlato, è importante prendere parte, schierarsi dal giusto lato della barricata, fatto di conflitto sociale, fatto di lotte quotidiane che portiamo avanti per cambiare questo stato di cose, come tanti anni fa hanno fatto molti altri compagni.
Noi non dimentichiamo, noi non perdoniamo Francesco, Pedro, ma nemmeno Giorgiana, Fabrizio, Carlo, Dax e tutti gli uccisi per mani infami che vogliono ancora oggi ostacolare le lotte sociali.
See you on the barricades!

Contro la meritocrazia, per l’auto-valorizzazione: perché il Premio di Laurea Francesco Lorusso?

Come affrontare, quindi rompere sovversivamente, la fissazione dei saperi nella rete di senso capitalista, l’utilizzo, da parte nemica, dei quanti di conoscenza partigiana che nelle università si producono ma spesso, loro malgrado, finiscono o neutralizzati nelle celle insonorizzate dell’edificio del potere, o recuperati alla produzione e riproduzione (in senso soprattutto autodifensivo) di discorso conservatore, contro-rivoluzionario? Come impedire la valorizzazione capitalista, come tirar su gli argini, le barricate, dell’auto-valorizzazione onde chiamare le cose col proprio nome e dare corpo e spazio a ricerche e riflessioni critiche a proposito di una struttura sistemica fondata sullo sfruttamento di ogni capacità, attributo e creazione umana o naturale? Non si tratta di raccogliere una serie di studi, recuperare in cartoleria una grande etichetta, disporla accuratamente e scriverci sopra “contro-saperi”, ma aprire alla possibilità di mettere propriamente in discussione, a dibattito, un lavoro che, costruito in forza di un meccanismo accademico (pure negletto), conserva potenzialmente in nuce un valore altro, un valore di segno +, da raccogliere nell’insieme delle finestre che si aprono, dal basso a sinistra, sul mondo contemporaneo e sulla sua critica.


L’università post-Gelmini, la ristrutturazione in corso che corre, l’impellenza di non restare schiacciati dalla produzione di discorso liberista, dagli slanci che le accademie compiono in avanti onde estirpare da sé quanto di potenzialmente differente detengono (come ambivalenza di fondo nella funzione politica che svolgono), ci hanno spinto ad aprire il Premio di Laurea Francesco Lorusso: per quanto, preso per sé, insufficiente, è importante avere e costruirsi più occasioni possibili per mettere in discussione il soliloquio meritocratico e lavorista che ovunque vibra nelle università. In questi anni abbiamo visto seriamente colpita la libertà d’espressione degli studenti e delle studentesse non disposti ad accettare il divenire azienda delle accademie, il chiudersi degli spazi di critica a vantaggio delle relazioni commerciali mondiali intrattenute dai dipartimenti di punta, più immediatamente a contatto con la sfera dello sviluppo tecnologico e finanziario. Studenti sospesi senza processo, sottratti alla possibilità di dare esami, professori denunciati perché si sono permessi di accettare il colloquio orale con alcuni di loro, polizia chiamata per risolvere ogni questione, a distruggere una volta di più, qualora ce ne fosse bisogno, l’immagine idilliaca dell’Università divulgata a reti unificate.
Come lo abbiamo immaginato?
Cosa resta delle lotte, delle rivoluzioni passate? E come si propagano, oggi, le piccole o grandi insorgenze contemporanee che si sviluppano da una parte all’altra del mondo? Cosa scaturisce da questa continuità spaziale e temporale, dalla loro forza e capacità di imprimersi come immaginario comune, come orizzonte culturale in diffusione, di fissare nodi secondo un’altra rete di senso, speculare e ostile al mantra del progresso positivo, della ricchezza e del benessere in aumento? Da una parte decrepiti (ma purtroppo vigenti) sistemi di governo e controllo deputati alla menzogna, allo sfruttamento, al revisionismo, all’oscurantismo e alla repressione. Dall’altra una costellazione in crescita, una galassia giovane e instabile di corpi in agglomerazione, di potenziali esplosivi, di vecchi e nuovi volti decisi a non starci più, che riscoprono la solidarietà, la forza del lavoro collettivo, e consegnano nuove vere speranze alla giusta volontà di cambiare questo mondo.
Le tesi, le ricerche, gli studi che migliaia di noi, studenti e studentesse, producono in forza di un meccanismo accademico, riguardano spesso proprio quella radiazione di fondo che vibra per tutto il globo e spinge molti e molte di noi ad approfondirla, a conoscerla e ad accelerarne la diffusione. Vogliamo iniziare a sottrarre ai baroni, ai professoroni, alle anime belle da Voltaire e salotto, il giudizio e la discussione, la detenzione, di tutti questi nostri sforzi e riflessioni. Da una storia collettiva nascono, e a quella appartengono.
Cosa sono, ci siamo chiesti, questi meccanismi meritocratici?
Questa rincorsa ai crediti, alle pubblicazioni, questa bagarre continua tra amici e colleghi? Sulla nostra pelle e sui giornali lo abbiamo subito scoperto: dispositivi selettivi che, in molteplici forme, strutturano l’organizzazione dei corsi di studi, articolano l’intenzione che li dispone sull’orizzonte della formazione di soggettività capitalista, di disciplinati lavoratori (spesso sotto-pagati) nella macchina generale dello sfruttamento delle energie e dei territori. Non possiamo permettere che le università diventino il pulpito del potere da dove, in continuo soliloquio, arbitra, giudica e decide. Chiamare i nostri lavori col nome proprio, considerarli per quello che sono, non solo un appuntamento istituzionale, ma elaborazione per una riflessione critica sullo stato di cose, quale che sia la disciplina, l’ambito, la sezione, l’origine dell’argomentazione, è un passo per sottrarre alle accademie il giudizio, l’utilizzo, la loro valorizzazione.
Il Premio Lorusso non vuole opporre alla “meritocrazia dei padroni” la “meritocrazia delle lotte”, crediamo però ci sia bisogno di chiamarci a raccolta, di aprire una discussione collettiva, senza allori e palandrane, smentirci e superarci, riconoscere il vero scopo dei nostri sforzi. Il tempo delle lezioni, il tempo delle sessioni, il tempo delle tasse, i semestri, la triennale: rompiamo questo orologio. Siano le lotte, i sussulti sociali che viviamo, sentiamo, osserviamo e produciamo a battere il ritmo dei nostri studi.