BANLIEUES, UN’ANOMALIA FRANCESE AI MARGINI DELLA CITTA’. Analisi antropologica di uno scenario politico periferico

Con questo prezioso piccolo frammento l’autore ha voluto rendere giustizia, avvalendosi di studi precedenti e servendosi di una disciplina come l’antropologia, in particolare con la sua branca politica, agli eterni protagonisti delle rivolte nelle banlieues francesi, prendendo in analisi la rivolta del 2005 a Clichy sous Bois, scoppiata in seguito alla morte di due ragazzi, rimasti fulminati in un trasformatore elettrico per nascondersi dagli agenti che li stavano inseguendo.

L’intento è quello di legittimare dal punto di vista politico tali rivolte, in quanto espressione di una rabbia causata da motivazioni radicate nelle falle del sistema sociale e istituzionale; di individuare tutti i fattori utili alla spiegazione globale delle rivolte, in modo tale da non scadere in un’analisi sterile e meccanica di queste manifestazioni di umanità in un momento di rabbia e disperazione.

Con la notevole capacità di scrittura dell’autore siamo accompagnati in un viaggio spazio temporale attraverso le strade delle banlieues, concepite come spazio urbano di conflitto e di contesa all’interno del quale le istituzioni e soprattutto la polizia sono quel nemico che è causa di malessere e allo stesso tempo pretende di autoproclamarsi come soluzione: “pompieri piromani”.

L’istituzione che più invade la cité infatti è la polizia, percepita come un vettore di intrusione e di imposizione di un’autorità illegittima ed è l’espressione di abuso di potere. La polizia rappresenta, per i giovani delle banlieues, l’ultimo ostile contatto con una società che dimostra di volerli rigettare ed essa stessa alimenta l’odio nei confronti dell’istituzione poliziesca usando metodi repressivi senza alcun limite. E non dimentichiamo che queste storie esistono in un paese in cui le violenze degli agenti vengono designate dalla stampa mainstram con il termine “bavures”, sbavature.

Questo lavoro ci fa capire come di fronte a tali ingiustizie quotidiane anche l’incendio di una macchina assume il significato di mandare in fumo ciò che non si ha la possibilità di ottenere: quella mobilità geografica e sociale che aprirebbe una via d’uscita dalla condizione di vita precaria.

Infatti queste rivolte non sono da considerarsi “impolitiche” perché lasciano una traccia dietro di sé, «una sorta di memoria scritta nel fuoco» che assume sostanza reale nella rivendicazione di diritti e di bisogni sociali, economici, culturali che si concretizzano in forme politiche non comprese agli occhi delle istituzioni.

E’ possibile definire gli atti di soggetti al di fuori dell’ambito istituzionale del potere come politici, poiché nella società le azioni rivolte alla contestazione del potere riconosciuto sono riconducibili a strategie appartenenti alla dimensione della politica. Il momento di rottura con le strutture di dominio in contesti di profonda diseguaglianza, si caratterizza come un atto di resistenza, realizzato da opposizioni soggettive che producono atti politici. Gli atti di resistenza sono qui valutati non tanto come movimenti di rivendicazione quanto per la loro capacità di rendere concreti immaginari diversi dalla realtà, spesso stigmatizzata e precaria, nella quale gli attori coinvolti vivono. Essi intervengono nel dominio pubblico andando a contestare la politica istituzionale, perché incapace di rendere vivibile la loro realtà, proponendo una via alternativa tramite atti che si possono definire come totalmente politici nonché legittimi.

E in un’ottica del genere persino il rogo di un scuola è legittimo e da leggere come il  fallimento che la scuola rappresenta per i giovani banlieuesards.

Attraverso analisi antropologiche di comportamenti rituali di civiltà non occidentali possiamo avere qualche strumento in più per riuscire non a parlare, ma quantomeno ad interpretare il linguaggio delle rivolte, il linguaggio dei dimenticati. Linguaggio che le istituzioni si sono sempre rifiutate di comprendere. Tant’è che il silenzio dei giovani rivoltosi, che non sono portatori di parole d’ordine infatti, non è altro che il rifiuto di interloquire con chi non si fa rappresentante delle loro istanze. Quello dei rivoltosi è un messaggio volontariamente silenzioso: i loro gesti sono strategie urbane, sono rivelatori dei problemi contemporanei. Come sostiene Clastres infatti, il conflitto è espressione di relazioni sociali.

Il tentativo di rendere giustizia e dignità a quei soggetti che hanno preso parte alle rivolte credo sia pienamente riuscito, dal momento che durante la lettura la loro haine (rabbia, odio) cresce dentro il lettore fornendogli una diversa lente di ingrandimento attraverso cui osservare la realtà; lente che mette a fuoco la violenza, il conflitto, la rivolta rendendo questi elementi nitidi e ripulendoli da qualsiasi macchia di superficialità.

Per leggere la tesi completa clicca qui: Banlieues, un’anomalia francese ai margini della città. Analisi antropologica di uno scenario politico periferico.